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I numeri sul web sono importanti. Come sento spesso ripetere al guru della comunicazione Marco Montemagno le view ed i like sono soldoni. I cosiddetti “influencer”, e Marco è uno di questi, sono individui i cui video sono stati visti da milioni di persone, con numeri altissimi anche in termini di like e twit sulle pagine social. Numeri freddi che da soli non dicono quasi nulla se non che bisogna farsi notare, e far soldi, nel minor tempo possibile!

Per rendere meglio l’idea, mettiamo che un tizio pubblichi su Youtube l’avvistamento di un ufo. Anche se il video in questione fosse un “fake”, se realizzato talmente bene da sembrare vero grazie al passa parola online potrebbe essere visto da milioni di utenti in pochi giorni. Ed anche se il video in questione prendesse tanti “dislike”, ciò sarebbe un aspetto secondario: infatti per un qualsiasi Youtuber ottenere milioni di views, nonostante i feedback, equivarrebbe a guadagnare migliaia di euro, derivanti dalla raccolta pubblicitaria, a prescindere dagli aspetti etici dei contenuti pubblicati.

Insomma il punto è che spesso in rete un video, o più in generale un contenuto poco educativo, oppure falso, può attrarre un gran numero di persone a cui visualizzare banner pubblicitari mirati.

È il business dei numeri e della quantità a discapito, certe volte, dell’etica e della verità. A discapito, direi anche, dell’educazione: è la cosiddetta pubblicità dell'”importante che se parli”.

Le fake news ne sono un altro classico esempio, tra l’altro balzato all’attenzione delle recenti cronache italiane. Facebook ha promesso che penalizzerà le notizie non vere, quelle che guadagnano sfruttando l’ignoranza e la creduloneria della gente. Mi auguro che lo faccia al più presto, e senza pietà!

Ma anche Youtube ha di recente introdotto pesanti sanzioni per i contenuti offensivi o volgari, modificando l’algoritmo che ne gestisce la monetizzazione. Molti Youtuber famosi sono stati pesantemente messi in crisi da questi cambiamenti (con gli introiti pubblicitari a cui erano abituati andati a picco da un giorno all’altro). Tutto ciò a seguito della protesta dei grandi sponsor di Youtube affinché quest’ultimo modificasse la propria policy pubblicitaria (il timore era che gli ads venissero associati ai contenuti violenti, in particolar modo a quelli presunti inneggiare al terrorismo).

Tornando a ciò che accade in Italia, oltre al problema fake news di cui il nostro Paese non è di certo immune, è recente la polemica su certe campagne pubblicitarie giudicate poco educative. Campagne, a mio parere, studiate proprio ad arte affinché se ne parli, nel bene o nel male.

Mi riferisco alla viralità degli spot del Buondì Motta, in cui un meteorite uccide la mamma e poi il papà, che ha ricevuto un coro di indignate proteste (in verità, a mio parere, assai moralistiche).

Ed intanto su Google Trends “Buondì” vola: è la prova che la pubblicità “cattiva”, grazie alle proteste che ne conseguono, fa parlare di sé, davanti alla tv così come sui social.

E poi c’è il caso, emblematico, di cui si parla da giorni sui gruppi Facebook frequentati dagli addetti ai lavori della comunicazione: Taffo, azienda di pompe funebri operante con varie sedi in centro Italia.

Dopo la campagna (a mio personale giudizio un po’ fuori luogo) che strizzava l’occhio alla vendetta nei confronti degli stupratori di Rimini (con abuso anche del tag #stuprorimini), è ancor più recente la campagna che, cavalcando l’onda del Buondì Motta di cui sopra, fa un gioco di parole sulla mamma ed il papà ormai defunti mettendoli dentro a bare fatte di morbide merendine con tanto di lapidi: “La mamma è motta o no? E il papà? In ogni caso noi siamo sempre pronti!”.

“La comunicazione dei grandi numeri”, quella insomma al costo di farsi tanti nemici per ottenere, di contro, qualche adepto (che bisognerà anche verificare se chiamerà quel simpaticone di Taffo il triste giorno in cui mamma o papà passeranno a miglior vita), apparentemente funziona perché fa parlare tanto, ma proprio tanto, di sé. E non è il solo “target generalista” a cui è rivolta a farlo (e nel caso di Taffo, proprio di tutti), ma in particolare gli addetti ai lavori, con discussioni infinite (la maggior parte delle quali propendevano sull’impatto, alla lunga, negativo della campagna).

Il caso Taffo è una spirale fatta di tanta viralità che probabilmente porta risultati tangibili.

Ma mi chiedo, ne vale la pena? Non sarebbe meglio optare per uno stile originale, sì, ma più rispettoso per chi, perdendo una persona cara, di certo non ci riderebbe su. Se il prezzo per fatturare un po’ di più è fare delle magre figure con chi sta davvero (e non per scherzo) soffrendo un lutto, forse sarebbe il caso di ristabilire i canoni della buona comunicazione.

Il punto centrale della questione è che, a mio parere, si può essere originali e virali, e fare numeri, senza offendere la sensibilità di nessuno (anche dei più piagnoni, permalosi e suscettibili), rimanendo se stessi, coerentemente, ma con stile: un valore che non guasta mai!

E chi se ne importa se ciò può far fare qualche like in meno: il brand ne guadagnerà però, nel tempo, in credibilità e serietà.


Leo Cascio

Leo Cascio

Sono brand builder, creator, consulente, formatore e divulgatore di web marketing. Autore del libro "Personal Branding sui Social" (link Amazon).
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